“Io ho la responsabilità e il privilegio di aiutarli a diventare dei cittadini virtuosi in grado di stare al mondo e far sì che riescano a coltivare anche quelle che sono le loro passioni, i loro interessi. Ho la responsabilità di garantire loro il raggiungimento di un titolo di studio e soprattutto di garantire il loro benessere psicofisico.”
Materiale fotografico fornito da Francesca Sorge
Quando ho conosciuto Francesca (nel 2020) tramite una app di incontri, sono rimasta subito colpita dalla varietà di interessi e iniziative in cui era coinvolta, dalla profondità del suo modo di essere e dalla capacità di saper articolare tematiche importanti in modo professionale e con spirito critico: ho trovato prima davanti ad uno schermo e poi davanti ad un bicchiere di vino un “vulcano vivo e attivo di pensieri, emozioni, parole e fatti”.
Ho trovato in lei il calore e la premura di una “pugliese di nascita e milanese di adozione”, come lei spesso si definisce, la carica e l’ “incazzatura” di qualcuno che qualcosa da dire ce l’ha, e il desiderio di condividere e rendere utili tanti elementi che popolano la sua interiorità!
Francesca è un’amica, ma quell’amica con cui il rapporto è “sostenuto”, fatto più di confronti, pensieri, scambi di opinioni (alle volte anche accesi) ed un po' meno di aperitivi e serate. E, anche se mi duole dirlo, abbiamo talmente poco tempo libero entrambe che anche la continuità è difficile in questo rapporto.
L’obiettivo iniziale di questa intervista era, come vorrebbe questa rubrica, fare un ritratto di Francesca Sorge: l’obiettivo è stato raggiunto solo in parte, perché per parlare di Francesca servirebbe molto più spazio e molto più tempo per esplorare i diversi dettagli e aspetti che la caratterizzano.
Abbiamo fatto una chiacchierata in video-call per dare vita a questa intervista, proprio perché gli impegni e la distanza non sempre ci permettono di farlo face to face.
Abbiamo toccato con delicatezza, coraggio e responsabilità tematiche varie e attuali, parlando di attivismo ma anche di “bolle nelle bolle”. È un’intervista che merita una lettura riflessiva.
Indice dei contenuti
ATTUALITA’ E CONOSCENZE - LE APP PER INCONTRI
Partiamo con una domanda per togliere l’imbarazzo… ricordi come ci siamo conosciute ed in che periodo tra l’altro?
<<Allora… non ricordo bene l’anno, ma se non sbaglio era il 2020. Ci siamo conosciute su una app, che permettimi, sarò anche un po' giudicante, ma ritengo fosse ai tempi una delle meno intelligenti app di incontri per donne lesbiche. Io uscivo da una storia molto importante con la mia ex, dopo aver passato un periodo da sola per cercare di rimettere insieme i pezzi, perché era stata una storia molto, molto faticosa. Quando mi sono sentita pronta per riprendere i contatti col mondo esterno, soprattutto a Milano, una città in cui puoi essere nessuno e puoi essere tutto, una città che potrebbe assorbire tantissimo ma potrebbe anche per lo stesso principio del vortice ributtarti fuori e non essere veramente soltanto un numero, mi sono iscritta su qualche app di incontri e… se non ricordo male tu avevi caricato delle foto in montagna tipo che stavi scalando?>>
Esatto!
<<Infatti ho detto "questa è proprio sportiva!" E poi ci siamo scritte un po', ci siamo viste, ci siamo conosciute e ho la presunzione di dire e di riconoscere che c'è stata subito una certa affinità intellettuale. E poi… poi basta. Poi è andata così. Beh, sì, ci siamo conosciute effettivamente su una app di incontri.>>
Ogni tanto mi capita di trattare l’argomento “app per incontri”, con amici ma anche al di fuori di quel contesto. Mi piacerebbe dare anche la tua lettura dell’uso di questo canale per conoscere nuove persone. Quindi, cosa ne pensi?
<<Le app di incontri sono uno strumento. Il problema non è l'app o il social in sé, è come viene utilizzato questo strumento, che ruolo dai a questo strumento, ma soprattutto come ti poni tu verso questo strumento. L'importante è essere chiari: cioè se tu vuoi stare sull’app per fare sesso, la usi per fare sesso, se vuoi stare sull’app per conoscere gente, la usi per conoscere gente. Non è detto che tutte le app di incontri debbano necessariamente portare al sesso occasionale, tutto sta a come le utilizzi, sempre con i dovuti accorgimenti ovviamente. Il rischio che vedo, ma parlo della mia esperienza è che poi ci si abitui così tanto, da dare un valore eccessivo a chat che diventano una compagnia, un’abitudine di persone che non hanno una vita fisica. Mi spiego meglio: io sono una persona che non ama trascorrere troppo tempo a scrivere, del tipo che se sento una persona che mi piace ci vediamo, ci beviamo una birra, se ci piacciamo bene se no bona. Invece mi è capitato in passato di abituarmi così tanto allo scrivere in chat ad una persona che non conoscevo e che poi ho scelto comunque di non incontrare, che avevo maturato una routine in cui questa persona faceva parte del mio quotidiano. Ecco, quello è un po’ uno dei rischi, ripeto per la mia esperienza, che vedo nelle app, ovvero il rischio di iniziare a parlare con delle persone senza poi passare al lato umano, al contatto fisico, non sai neanche che odore fa questa persona e questa cosa un po’ mi preoccupa e mi ha fatto riflettere in passato. Ma per il resto, perché no? Anzi, è un modo come tanti altri di riconoscere che siamo figli del nostro tempo e nel nostro tempo ci sono le app di incontri.>>
Ovviamente, ricordando sempre di usarle con la giusta attenzione, cercando di verificare sempre i profili e di conoscere le persone gradualmente, con il buon senso di non mettersi mai in situazioni di pericolo, anche perché alle volte, non sempre dall'altra parte c'è chi si dichiara di essere.
<<Esatto. In più ritengo necessario sottolineare che se decidi di usare una app per incontri, nell’uso della stessa tu debba essere anche una persona abbastanza strutturata per riconoscere un po’ chi hai dall'altra parte, o comunque per cogliere dei segnali. E questo vale nel mondo della comunità LGBTQIA+, ma vale anche per le persone etero. Questo ti permette quantomeno di pensare che dall’altra parte puoi trovare un profilo fake ma anche di riconoscere dei segnali anziché scambiarli per attenzioni, per coccole, quando poi in realtà non sono così. >>
Direi quindi la giusta prudenza e accortezza da tenere sempre, come in tutte le cose.
VITA - PERCORSI DI CRESCITA PERSONALE
Una delle prime cose che mi aveva incuriosita quando ti ho conosciuta era la varietà di interessi, ma ancora di più mi aveva colpita il come davi forma a questi interessi portando avanti iniziative diverse con grande forza e determinazione. La domanda ora è: tra tutte queste cose che ti circondano e fanno parte di te, di cui poi parleremo meglio a breve, quale è la cosa che ti fa sentire più viva? O meglio, quella cosa che più ti fa sentire te stessa?
<<Non ne sento solo una al momento. Io sono sempre stata una persona abbastanza curiosa e ho sempre cercato stimoli. Ho sempre dato forma a questi stimoli, coltivando quelle che poi sono le mie passioni, dalla musica alla fotografia, alla lettura, alla scrittura. Al momento ti posso dire che quello che mi fa sentire più viva è sicuramente il mio lavoro come coordinatrice di comunità per adolescenti vittime di maltrattamenti e abusi, e poi tutto ciò che gravita attorno alla comunità LGBTQIA+. Quindi queste due macro-aree mi fanno sentire viva, si intersecano e rappresentano praticamente me stessa, cioè il mio lavoro, quello che faccio, e poi quello che realmente sono: una persona omosessuale all’interno di una comunità LGBTQIA+. Da qui tutte le battaglie che poi ne conseguono, che sposo e dalle quali deriva anche il mio attivismo, nel mio piccolo ovviamente, e tutta la mia parte politica, nel senso più alto del termine, a cui do forma ogni giorno.>>
Come lo hai capito? Mi spiego meglio, riguardo al tuo attivismo, per esempio, non è che uno si sveglia al mattino e dice “ah oggi sono un attivista!”. Immagino ci sia stato un percorso di consapevolezza che ti ha portato ad essere così oggi. Quindi, come ci sei arrivata ad oggi? Come hai iniziato?
<<È un percorso di consapevolezza maturato sicuramente a partire dagli anni dell'università in poi. Quindi, direi anche tardi, ma non troppo se penso alla mia generazione (classe 1984). Ho iniziato con un percorso politico perché io all'epoca ero iscritta ai Giovani Democratici e quindi mi occupavo di tematiche di attualità. Ho iniziato con l'attivismo lì, ma poi questo è sfociato inevitabilmente in un percorso di consapevolezza personale che mi ha portato a capire, dopo 15 anni di relazione con un uomo, che ero omosessuale. Raggiunta questa consapevolezza e soddisfatto il bisogno di ammetterlo a me stessa e ammetterlo a tutti quanti, perché avevo bisogno di dirlo a tutti che avevo capito questa cosa, quasi fosse una vittoria per me, da quel periodo in poi e parliamo del 2017, è partito tutto il mio percorso di attivismo, nel senso che da subito mi sono sentita parte di una comunità e mi sono anche sentita una minoranza all'interno della società. Ho cercato da subito di portare avanti delle battaglie e delle cause nelle quali mi rivedevo e parallelamente ho sempre fatto volontariato con delle associazioni. La mia parte di attivismo e quindi anche la mia parte politica, non era solo legata alla comunità, ma anche a tutto quello che riguarda il mondo del terzo settore, degli ultimi, dei poveri, dei non ascoltati, dei non visti. Ho sempre avuto questa attenzione che poi è sfociata anche in un lavoro. Quindi se devo dire da dove ha avuto origine questo percorso di consapevolezza ti direi da quando ho iniziato a frequentare un partito.>>
“TOCCA A NOI” – UN’ESPERIENZA SUL TERRITORIO
Iniziamo ad esplorare la prima parte delle due macro-aree che è quella dell’attivismo. Vorrei parlare di “TOCCA A NOI”, un Associazione Culturale che promuove partecipazione e stimola l’azione legislativa su temi civili e sociali, di cui sei referente per la Lombardia. Quale è il motivo per cui hai deciso di seguire questa Associazione e di diventare referente per la Lombardia?
<< “Tocca a noi” l’ho scoperta due anni fa, quando c’è stata tutta quella mobilitazione relativa alla tampon tax, perché l'associazione “Tocca a noi” ha fatto un tour in tutta Italia portando in giro a suo tempo quel tema e quella battaglia per l'abbattimento dell'Iva sugli assorbenti, che poi abbiamo ottenuto con il governo Meloni. Il tema di questa associazione appartiene alla Francesca del presente: io ne condivido appieno le cause, le battaglie e tutti i progetti che ne verranno e che al momento non posso spoilerare. Credo che sia arrivata nel momento e nel modo giusto, perché la Francesca del passato non aveva messo a fuoco questi temi con contezza, se non il macro-tema politico e quindi l’abbattimento delle differenze tra genere e generazioni e il welfare egualitario che sono temi, comunque, di cui tendenzialmente si è sempre discusso un po’ nella scena politica mondiale, ma senza mai avere l’opportunità di viverli in prima persona e più da vicino, toccando con mano la varietà di tematiche che portano con sé.
Invece il punto forte che sento di questa associazione, che mi piace tantissimo, è la territorialità, la possibilità di creare una rete tra persone fisicamente sul territorio, abitudine che soprattutto dopo la pandemia è venuta un po' meno in generale e che in “Tocca a noi” assume invece un ruolo centrale. Ci incontriamo dal vivo, creiamo contatti umani e interconnessioni. Uno dei tanti obbiettivi che “Tocca a noi” sta realizzando, è quello di creare una rete delle amministrazioni locali che si mettano in contatto tra di loro, che si passino le proposte di legge, che si passino delle informazioni e che seguano ovviamente un filone politico omogeneo. In Lombardia siamo tanti e sul territorio nazionale ricopriamo quasi tutte le regioni. Tieni conto che la suddivisione regionale è nata da pochissimo, da novembre 2022, ci stiamo riorganizzando per il passaggio da nazionale alla struttura regionale con i relativi comitati regionali, proprio perché con l’aumentare dei numeri dei soci e il desiderio di mantenere un forte radicamento sul territorio è diventato un passaggio necessario e da fare con cura. Sui progetti come ti dicevo c’è un gran fermento ma soprattutto rimarrà importante fornire strumenti al territorio per fare attivismo anche a livello locale proprio su tutte quelle tematiche civili e sociali fondamentali per sostenere l’equità e l’uguaglianza tra generi e generazioni. Solo per farti un esempio c’è stato un “able to sustain” un fine settimana organizzato per conoscere campagne a livello nazionale attuali aperti a chiunque, per confrontarsi su come fare advocacy e per apprendere nuovi strumenti di attivismo e partecipazione sul territorio. Dei nuovi progetti ne parleremo quando saranno on air!>>
LA PROFESSIONE – L’EDUCATRICE
Passiamo all’altro dei due macro-temi che per te sono rappresentativi, ovvero il tuo lavoro nell’ambito educativo. Dal tuo CV leggo che nel 2011 sei stata co-fondatrice di Su Le Mani-che, un centro di servizi per l’infanzia a Trani, nel 2018 entri come educatrice nell’Associazione Caf onlus di Milano che accoglie e cura attraverso le proprie Comunità Educative Residenziali minori vittime di gravi maltrattamenti e abusi. Da ottobre 2022 sei coordinatrice di due di queste comunità per l’Associazione Caf onlus a Milano. I tuoi studi in campo pedagogico e educativo sono in continua evoluzione. Una delle prime cose che mi domando riguardo alla tua professione è: quale è l’aspetto più critico e difficile di questo lavoro?
<<L'aspetto più difficile è la responsabilità. Questo lavoro, soprattutto quello nell’ambito comunitario che svolgo da cinque anni tramite l’Associazione Caf onlus, perché prima mi occupavo di infanzia e adolescenza, non nell'ambito comunitario, sempre nell'ambito educativo, del lavoro domiciliare, e scolastico, ma non comunitario, è un lavoro delicato con una responsabilità alta perché io non costruisco spazzolini o macchinine, io lavoro con le persone. La responsabilità per la cura e per l'attenzione che ho verso queste fragili vite umane, bambini quando lavoravo nell’infanzia, e adolescenti ora, che ripeto sono fragili vite umane, per quello che hanno subito e per quello a cui hanno assistito. Io ho la responsabilità e il privilegio di aiutarli a diventare dei cittadini virtuosi in grado di stare al mondo e far sì che riescano a coltivare anche quelle che sono le loro passioni, i loro interessi. Ho la responsabilità di garantire loro il raggiungimento di un titolo di studio e soprattutto di garantire il loro benessere psicofisico. Questa, secondo me, è la parte più difficile: avere la responsabilità di una vita umana. La mia responsabilità in quel senso finisce quando finisce la mia giornata lavorativa.>>
Sei sicura che finisca quando finisce la tua giornata lavorativa?
<<Sicurissima. È il risultato di un lungo lavoro che ho fatto su di me. Ora, togli il fatto che da sei mesi sono coordinatrice e quindi ho anche un'équipe di colleghi educatori da coordinare, ma ho imparato nel tempo a non portare la sofferenza di questi ragazzi a casa. Ho fatto un lavoro importante di terapia, mi sono molto schermata da questo aspetto perché ho rischiato in passato il burnout. Ho imparato a proteggermi e questa protezione mi permette di svolgere questo lavoro con una certa lucidità, un certo distacco che serve per poter prendere poi anche delle decisioni importanti. Questo è sicuramente uno dei miei punti di forza.>>
Hai mai pensato di lasciare questo ambito professionale?
<<No, quando sono stata vicina al burnout, ho cambiato città e ho cambiato mansione. Ma il burnout non era dovuto al lavoro in sé, era la saturazione a cui mi aveva portato la mia professione. Prima ero Vicepresidente di cooperativa, ero coordinatrice del Centro servizi per l'infanzia, ero la coordinatrice pedagogica di un'equipe. Ho lasciato tutto e sono andata a fare l’educatrice. Mi sono demansionata e sono ripartita da zero a Milano.>>
E poi sei arrivata di nuovo all'essere coordinatrice dopo quattro anni. Cosa è cambiato rispetto alla coordinatrice del passato?
<<Sicuramente ho una consapevolezza diversa, responsabilità diverse ma anche una sicurezza diversa rispetto alla mia professione. E poi oggi è diversa l’utenza, sono più grandi, ma soprattutto prima non era una comunità educativa residenziale per minori vittime di abusi. Prima mi interfacciavo solo con le famiglie e con colleghi, ora mi interfaccio con le famiglie, gli assistenti sociali, con i loro neuropsichiatri. C'è tutto un aspetto clinico che io prima non approfondivo come il lavoro degli psicologi, il tribunale, i curatori, i tutori.>>
Quella scelta di cambiare e ricominciare da zero si è rivelata poi un percorso effettivamente propedeutico al portarti a svolgere al meglio quello che fai oggi?
<<Assolutamente si, diversamente né mi avrebbero proposto questo coordinamento, né sarei riuscita io a farlo. Non avrei accettato la proposta se non mi fossi sentita sicura, professionalmente parlando. Oltre a questo credo che ci debbano essere anche dei lati tuoi caratteriali, personali, che ti permettono poi di far fronte a tutto quello che richiede questo ruolo. Cioè, banalmente, se sei una persona timida, introversa, che ha paura a parlare con le persone che si vergogna, non puoi fare la coordinatrice. Ci sono dei lati caratteriali, caratteristiche che sono imprescindibili per poter svolgere questo ruolo. Ecco, sono certa che se non fossi Francesca e non avessi dei lati comportamentale e caratteriali che mi contraddistinguono, forse non sarei qui.>>
Io, sinceramente, prima di conoscere te non ho mai pensato alle vite di questi ragazzi/e.
<<Tutti così mi dicono! Perché queste realtà sono molto lontane da noi, dal nostro quotidiano, da noi intendo noi persone che abbiamo avuto la fortuna di avere due genitori, di avere un'istruzione adeguata, di avere un'educazione adeguata, di avere una vita “normale”. La prima cosa che dissi a mia madre il primo giorno di lavoro qui a Milano è stata: “le cose che vediamo in tv esistono sul serio”. Questa è stata la mia prima impressione, perché fin quando sono in tv e non ti accadono e non appartengono alla tua bolla, è come se le cose non esistessero. Invece quando ho iniziato a lavorare qui mi sono accorta che queste situazioni non sono poi così distanti dalla nostra bolla.>>
LA FOTOGRAFIA - “TEMPO SOSPESO”
E tu devo dire che in un modo creativo hai provato a bucarle queste bolle: parliamo del tuo fotoreportage “TEMPO SOSPESO” in mostra prima a Milano e poi a Trani, dove hai unito la tua passione per la fotografia con la complessità della vita in comunità durante il primo lockdown dovuto alla pandemia da Covid-19. Ne è uscito un racconto che ha un’estetica fotografica importante e che può essere veramente un elemento per migliorare la consapevolezza su queste realtà in ognuno di noi. Cosa ti ha fatto scattare questa idea?
<<È nata da una riflessione legata proprio al discorso che abbiamo fatto poco fa: noi viviamo un po' nella nostra bolla no? Ecco, la comunità durante il lockdown era una bolla nella bolla e quindi volevo immortalare quel periodo e come stavano vivendo i bambini della comunità e la comunità stessa in quel periodo. Ho deciso di lasciare una traccia fotografica di come hanno vissuto i confini della comunità, ma non solo i bambini, anche i colleghi, perché essendo noi un servizio residenziale e lavorando su turni, eravamo considerati come se fossimo persone all’ospedaliero, e quindi seguivamo tendenzialmente tutte le normative e le circolari sanitarie. Mi sono detta ok posso fare qualche foto? Si, e allora proviamo a mostrare questo momento. Lì c'è la noia, la lentezza, le giornate tutte uguali e l'attesa. E questa ultima cosa l’attesa, come dico sempre, è la parte più presente. Gli utenti della comunità che siano bambini, ragazzi, adolescenti, sono sempre stati abituati ad attendere. Attendono che arrivi il venerdì, attendono la telefonata con il genitore, attendono che arrivi lunedì per la visita con il genitore, attendono l'appuntamento con l'assistente sociale, attendono la convocazione del giudice. La loro è una vita fatta di attesa. Durante il lockdown questa attesa era amplificata. Amplificata dal fatto che le giornate erano tutte uguali, che c'era questa lentezza, che il tempo pareva non trascorrere mai all'interno della comunità, tant’è vero che tutti noi educatori all'epoca ci inventammo falegnami, insegnanti di educazione fisica, di pittura, insomma, qualsiasi cosa pur di dare una nuova routine a quei bambini e cercare di contrastare l’angoscia per l’attesa nel miglior modo possibile. >>
Pensi che questo fotoreportage possa aver effettivamente bucato qualche bolla?
<<Guarda se solo anche una persona ha visto questa mostra fotografica e ha pensato che esistono vite umane da ricostruire al di fuori della sua bolla ed è diventata consapevole che queste realtà esistono, per me l'obiettivo è raggiunto. Ho ricevuto tanti messaggi sia quando ho esposto a Milano, che quando ero a Trani, di persone che non conoscevano questa realtà, che mi hanno ringraziato per queste foto, affermando che davvero non erano a conoscenza di una realtà del genere, perché sono quei mondi che come dicevo prima, se non ti toccano non esistono. >>
Io ho avuto l’onore di vedere insieme a te gli scatti a colori, che sono a mio parere altrettanto degni di emozione… Perché hai scelto il bianco e nero per la stampa e l’esposizione in mostra?
<<In bianco e nero, perché non era un periodo colorato, né per i bambini né per noi. Ti leggo le parole, che condivido moltissimo, di una parte della sinossi di “TEMPO SOSPESO” della mostra al Tempio del Futuro perduto a Milano:
“Francesca sceglie di fissare in una rassicurante scala di grigi piccoli gesti che scandiscono lo scorrere del tempo di una quotidianità stanca, perché in attesa di riprendere il movimento e l’energia del contatto con l’altro.”
E questa era la mia intenzione, aumentare l'intensità e anche l'effetto per ricalcare la difficoltà di quei giorni. Era anche un po’ una denuncia, perché noi non eravamo praticamente considerati e minimamente menzionati neanche dallo Stato, cioè mentre lo Stato varava decreti per le palestre, per i negozi, per l'ambito sanitario, noi non eravamo minimamente calcolati né come fascia di utenza né come personale.>>
Come hanno vissuto i ragazzi questa esperienza fotografica?
<<Allora i bambini erano piccoli per comprendere il significato di una mostra, forse alcuni di loro non sapevano neanche cosa fosse la mostra, però io ho fatto dare a loro i titoli! Ed è stato sicuramente emozionante, bello, coinvolgente: ho mischiato le foto e dato la fotografia ad ogni bambino, non ovviamente quella di sé stesso, e ho chiesto letteralmente “adesso dimmi la prima cosa che ti viene in mente guardando questa fotografia”, quella cosa è diventata il titolo della relativa foto. È stato un bel viaggio che abbiamo fatto insieme, una bella esperienza. Poi tieni conto che le fotografie non hanno il volto dei bambini, sono di spalle, e le foto sono tutte spontanee, perché durante il lockdown io facevo il corso di fotografia ai bambini sempre sulla scia del reinventarsi per combattere l’attesa, e quindi avevo sempre la macchina fotografica in mano e scattavo ma senza che per loro fosse qualcosa di invasivo, era normale.>>
Avremo la possibilità di vedere “TEMPO SOSPESO” esposto in mostra in qualche altra città?
<<Si, vorrei continuare a portarlo in giro, penso a Roma e Torino.>>
LA LETTURA - ANDIAMO IN LIBRERIA
Passiamo alla lettura, che è una delle tue altre grandi passioni, visto che quando non stai facendo attivismo leggi molto…
<<È attivismo anche quello!>>
Domanda secca: 3 libri che consiglieresti: ad un adolescente, ad una donna, ad un genitore.
<<ok, iniziamo!
-Adolescente: consiglierei il libro di Francesca Cavallo “Ho un fuoco nel cassetto” - perché è un libro bellissimo che mi ha travolto e mi ha dato veramente tanta energia. È la sua storia: sostanzialmente lei si definisce una donna, queer e meridionale che è evasa da quello che era il suo paesino di origine in provincia di Taranto ed è diventata padrona del suo destino. È una storia di coraggio, di determinazione, di uscita anche dai binari, che spinge a cercare ovviamente nel rispetto dei propri limiti, di fare il possibile per essere artefici del proprio destino.
-Ad una donna: “Morgana” Il libro di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri. È la storia di dieci donne che hanno vissuto controcorrente, sono delle storie pericolose, esagerate, che vanno da Caterina da Siena a Moana Pozzi e sicuramente sono degli esempi. Grandi esempi di donne, che comunque si sono contraddistinte per le battaglie che hanno fatto, come stimolo ad emergere ad ogni donna che magari può ancora avere paura e si sente in una posizione inferiore rispetto ad un uomo.
- Ad un genitore consiglierei il libro di Carolyn Hays, “Una storia d'amore. Lettera a mia figlia transgender”. È una storia bellissima, fatta di diritto, di politica, di azione, anche di trasformazione di tutto il contesto familiare. Questa donna ha ripercorso in un libro tutta la storia da quando suo figlio ha fatto coming out al percorso di transizione. È bello perché permette di vedere il punto di vista di un genitore, cosa che difficilmente accade perché quasi sempre quello che abbiamo nella letteratura è il racconto della propria vita. Qui invece l'autrice racconta la fatica dell'essere mamma, dell'essere mamma di altri figli, dell'essere compagna e moglie di un uomo in un contesto molto cattolico, il trasferimento in un'altra città per garantire sicurezza e protezione al proprio figlio. È molto interessante il suo punto di vista, quello di un genitore, che molto spesso secondo me viene anche posto in secondo piano, mentre credo che meriti la giusta importanza.>>
LA NECESSITA’ DI SCRIVERE – LA REDATTRICE
Tra tutte queste cose hai anche il tempo di scrivere! Dopo diversi anni di collaborazione con “Culturalmente” hai di recente iniziato a scrivere su “Trenta Quaranta – visioni generazionali”, con una stanza tutta tua per i lettori. La tua ultima rubrica “sui generis… e tu di che genere sei?” la trovo una bella idea, anche qualcosa di cui ognuno avrebbe un po' bisogno e su cui riflettere. Da dove è nata questa idea? E ritieni applicabile questa rubrica solo ai generi riferiti alle scelte di orientamento sessuale o anche ad ogni tipologia di persona per la sua caratterizzazione e tipologia di vita?
<<Allora questa rubrica è più o meno il prosieguo di quella che curavo su “Culturalmente”, nel senso che mi piaceva e mi piace tutt’ora l'idea di intervistare persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+ ma con storie di persone comuni. Quello che vedo spesso è intervistare le persone conosciute, attiviste conosciute e famose. A me piace invece raccontare e raccogliere storie del popolino, di persone, di amici, di storie vicino a me. Quando poi “Culturalmente” ha chiuso, noi, ex redattori di “Culturalmente”, ci siamo sentiti orfani, bisognosi di vivere, perché corrisponde anche un po’ al bisogno e alla necessità che hai, e così abbiamo aperto “Trenta Quaranta”. Lì è nata l'idea di questa rubrica e non necessariamente “Sui generis” rappresenta un genere di orientamento sessuale. Anzi, io mi sono definita un genere un po' pazzo, per esempio, o un altro esempio nell’ultima intervista che parla di una donna vittima di violenza psicologica da parte di un'altra donna, alla domanda che genere sei, la ragazza si è definita un genere esplosivo, quindi è una caratteristica di te.>>
Concludi la presentazione della tua rubrica “SUI GENERIS” con la frase “la bellezza della condivisione è proprio nei racconti”. Cosa diresti a chi è arrivato a leggere fino in fondo questo racconto di te?
<<Spero non si sia annoiato/a e spero che questa intervista possa essere per certi versi una fonte di ispirazione.>>
Non c’è altro da aggiungere!
Grazie per questa bella chiacchierata! Un po' di aria bella!
Non è stato per niente facile scrivere questo ritratto, è un ritratto a metà che richiede il suo completamento in una prossima puntata!
Le tematiche che abbiamo trattato richiedono uno certo spessore e Francesca ha avuto la capacità di sapere parlare di questi argomenti con uno spirito critico che la contraddistingue e con la padronanza di chi con questi temi ci cresce, si documenta, ci riflette e si mette in discussione.
È stato infine per me un piacere ripercorrere le parole di Francesca nella stesura di questo articolo del blog, riportare molte frasi di ispirazione personale che ho trovato in lei, riflettere su vicende che spesso dimentico, ricordarmi che a modo mio posso uscire dalla mia bolla, anche se non sempre è facile.
BIOGRAFIA DI FRANCESCA SORGE
Francesca Sorge, classe 1984.
In Puglia, a Trani, sua città natale cresce e si inserisce da subito nell’ambito educativo.
Si laurea come “educatore professionale esperto nel campo del disagio minorile, devianza e marginalità”, approfondisce le “scienze pedagogiche” nella magistrale per poi fare un Master in “Evoluzione e Sviluppo delle tecniche Pedagogiche.” All’attivo ha anche un “Master in Counselor”.
Nel 2011 è co-fondatrice di “Su le Mani-Che” a Trani, un centro di servizi per l’infanzia, che propone attività di crescita e sviluppo basata su un approccio ludo-didattico. L’obiettivo principale è quello di stimolare la creatività dei bambini, di suscitare in loro la voglia di guardare le cose da un punto di vista diverso e di trasmettere il metodo del gioco-apprendimento.
Nel 2018 si trasferisce a Milano, dove entra come educatrice nell’Associazione Caf onlus Comunità Educativo Residenziale per minori vittime di gravi maltrattamenti e abusi. Nel tempo libero inizia a scrivere su “Culturalmente” di tematiche di attualità e legate al mondo della comunità LGBTQIA+. Nel 2022 diventa referente per la Lombardia dell’Associazione “Tocca a noi”, associazione che nasce nella primavera 2021 per promuovere partecipazione e stimolare l’azione legislativa su temi civili e sociali: per l’equità̀ e l’uguaglianza tra generi e generazioni.
Nel frattempo, diventa anche referente per l’area Scuola presso il Caf, e nel 2022 mette in mostra il suo fotoreportage “TEMPO SOSPESO”, prima a Milano (2022) e poi a Trani (2023).
Da ottobre 2022 diventa coordinatrice sempre presso l’Associazione Caf onlus di Milano di due comunità educativo residenziali. Nel tempo libero continua a leggere, bere tanto caffè, scrivere. Oggi scrive su “Trenta Quaranta”, dove cura la rubrica “Sui generis… e tu di che genere sei?”. Nelle sue giornate rimane presente e sempre con lei Pound: la sua simil labrador!